lunedì 6 ottobre 2014

Inverno


Ho finito tutto l'amore che avevo saggiamente messo da parte nei giorni nei quali mi traboccava fuori dalle tasche; avidamente stipato quando ne avevo abbastanza da esserne ubriaco per giornate intere.
S'è fatto improvvisamente scuro e freddo, mi sono strofinato le mani e ho cercato invano, ho controllato anche nella piccola tasca interna della giacca da poeta che usavo negli inverni a Roma, ma niente.
Ci sarà dunque uno svolazzare di draghi qua intorno e giornate ventose e un mare verde con certe onde spaventosamente belle e mattine che mi sveglierò e sara tutto cosparso di foglie gialle.
Ho intravisto il sole un paio di volte e ho assistito alle veglie delle nuove generazioni che raccontavano le loro storie assurde - facevano a gara a chi avesse sofferto di più - e poi si consolavano teneramente abbracciandosi in silenzio o facendo l'amore per ore in uno slancio empatico che potesse accomunarli in qualche modo: erano tutti piccole anime abbandonate.  
Ho frugato ancora in quella stessa piccola tasca interna con l'ostinazione e l'illusione che qualcosa di assurdamente bello fosse accaduto, e mentre pregavo in silenzio la mia gratitudine a Dio, mi è stato chiesto di uscire perché il custode avrebbe chiuso il grande portone a breve - avrei preferito chiedere di esservi chiuso dentro - ma la vita è fuori, mi è stato detto, e sono tornato a casa grondante. Vediamo per quanto andrò avanti senza. 

Marcello D'Onofrio

lunedì 26 maggio 2014

intorno #1 - Belfast

Il sole fa la sua solita sparuta apparizione teatrale: si leveranno trionfali sipari di nuvole d’acciaio e tutto intorno sarà sgomento e applausi da Prima all’Opera. Bianche membra adorano il dio luminoso, altre, più scure, non se ne curano affatto e continuano a lavorare; adoperano lunghe maniglie da issare in continuazione con le vene degli avambracci che si fanno gonfie.
Poi l’odore di fritto sale alla narici proprio nel mentre delle celebrazioni mattutine, che pare una bestemmia per il suo tempismo; i più fortunati sono seduti alle prime file o addirittura su un enorme prato verde insieme ai saltimbanchi, i meno fortunati sono vicino all’entrata, in quartieri che hanno demolito e che demoliranno ancora come si eradicano funghi e tumori.
Belle ragazze si incipriano il naso; brutte ragazze si incipriano il naso, le guance e altri organi accessori.
Qualcuno parla spagnolo in un angolo di Shaftesbury Square e in quello stesso istante due sconosciuti si baciano con passione altrove, noncuranti delle folle intorno; gli spagnoli smettono di parlare, gli sconosciuti si salutano e tutto intorno è estremamente ordinato e funzionale: nemmeno un diesis fuori posto eccezion fatta per la torre dell’orologio che pende più del previsto. Sarà colpa dei rintocchi.

Marcello D'Onofrio

lunedì 7 aprile 2014

Una situazione

Ero sul bordo del marciapiede, pioveva ed avevo quel fastidio allo stomaco, lo stesso che mi prende quando sono sull'altalena nella fase di discesa in avanti. Ho imparato ad andare sull'altalena tardissimo, prima di allora muovevo scoordinatamente le gambe in avanti e indietro senza nessun risultato utile, ad oggi però so andare sull'altalena e so pure lasciarmi un bel po di cose alle spalle, da solo, perché la vita si vive da soli.
La pioggia cadeva su tutto, era una pioggia senza pretese, scendeva mio malgrado come avevo imparato che fanno tutte le cose intorno - mio malgrado - eppure sentivo che potevo prendermene un po' per me quella mattina; non tutte, ma alcune gocce erano per me: le sentivo più pesanti, più decise, più incisive come piccoli timbri delebili che mi si stampavano sulle spalle. 
Mi passarono davanti tre persone che ridevano, ridevano fragorosamente e un po' sfacciate, rimasi un poco turbato, poi un campanile a punta battezzò un'ora imprecisata di un giorno qualsiasi trafiggendo per un attimo il cielo con la guglia affilata, e da quel varco piovve ancora più fittamente come se il cielo fosse stato ferito.
Abbassai lo sguardo, i taxi neri passavano come gli altri giorni, con quei fari tondi che pareva sorridessero e pure quelli nella loro unicità avevano qualcosa per me, il loro sorriso, che si rifletteva nella strada umida come uno specchio, come gli occhi solitamente sono. 
Non ricordavo esattamente cosa facevo li, non ricordavo affatto se dovessi partire o se fossi già arrivato o se - piuttosto - ero solo in attesa di un altra destinazione, ma per il momento non era importante e la pioggia pareva essersene accorta perché, noncurante, pioveva su tutto, sulle mie spalle, sulle risate sfacciate dei passanti, sul campanile affilato, sui taxi neri, sul marciapiede, sulla strada-specchio; ed io ero li, ero parte di quella cosa, non ancora iniziata e non già conclusa, ci ero invischiato fino al collo e anzi forse più.
Feci un passo in avanti e il mondo barcollò per un attimo, non resse quel mio movimento o forse si rese conto che in quel sistema che mi aveva creato intorno io ero l'unità viva e in grado di cambiare le dinamiche e le conseguenze. Non avrebbe retto ancora a lungo, quel mondo lì, o meglio, sarebbe stato scombussolato a dovere.

Marcello D'Onofrio


lunedì 31 marzo 2014

Una attesa alle Poste

Ecco una cosa che non mi mancherà affatto, pensavo mentre entravo alle Poste.
Erano lì, erano una decina, i martiri delle Poste Italiane e presto sarei stato anche io parte della loro attesa perché si sa, alle Poste si attende, nulla più.
Chi si gira i pollici - un tizio con una enorme pancia-melone che stira un maglioncino grigio -, chi si sventaglia - una signora, la classica signora italiana sui sessanta con i capelli cotonati, il vestito intero nero a fiori o a fantasia e le dita grassocce con lo smalto viola: ce ne sono ovunque e alle poste ce ne sono due ogni dieci persone - , chi diteggia distrattamente con il suo tablet - un ragazzo sui trenta la cui faccia dice che è seduto lì da non meno di quaranta minuti -,  chi guarda istupidita i vetri degli sportelli delle Poste oltre i quali nessuno s'azzarda a servire i clienti -  una vecchia che avrà almeno centocinquant'anni, beata lei! -, nemmeno si renderà conto di dove sia ne quanto abbia ancora da attendere; chi passeggia nervosamente avanti e indietro borbottando improperi contro le Poste  e, già che c'e anche contro Trenitalia, ATAC e qualsivoglia compagnia statale al "servizio" dei cittadini - io -.
Il tempo passa, nessun impiegato si azzarda a fare il suo lavoro e il mio bigliettino stampato dalla macchina preposta dice che il mio numero è il centoquarantotto, sul pannello luminoso è segnato il novantasei e, come ho già detto, in attesa ci sono poco più di dieci persone: qualcosa non quadra; poi però capisco: noi dieci siamo i superstiti, quelli che, dopo una mezz'ora o di più siamo ancora lì a sperare. 
Personalmente ho una teoria sull'attesa e mi prenderò la briga di spiegarla, tanto di tempo ne ho.
"L'attesa va portata a termine dal momento che ti prende un tempo superiore a quello che avresti potuto impiegare per tornare a casa." Il che significa che più aspetti e più vale la pena di restare ad aspettare perché se andassi via che so, dopo mezz'ora, avresti solo buttato mezzora senza risolvere il problema per il quale eri in attesa. Tanto vale buttare un'ora ma riuscire vincitore (cosa comunque difficile, alle poste).
Dunque attendevo, allo scattare dell'ora di attesa iniziai a borbottare in inglese, era chiaro che iniziavo a perdere la lucidità, la sventagliatrice aveva smesso di sventagliare e se ne stava come un tricheco sulla sedia rigida, il signore panciuto pareva essersi assopito con le mani appoggiate sulla sua stessa pancia, il ragazzo guardava fisso nel vuoto con occhi senza vita, le vecchia istupidita pareva essere ancora più vecchia e istupidita, e dall'altra parte degli sportelli gli impiegati facevano tutto fuorché fare il loro lavoro lanciandosi nelle attività più disparate e assurde che vanno dalla pausa caffè - uscito dalle macchine per caffè a cialde che tengono negli armadi insieme ai faldoni - al far fare alle stampanti quei rumori da stampanti per dare una parvenza di lavoro.
Ad un certo punto venne il turno della vecchia istupidita e stranamente c'era un operatore dietro il vetro ad attenderla, neanche a farlo apposta la vecchia non distingue il vetro con dietro l'impiegato dal vetro senza impiegato e sosta senza profitto davanti a quello sbagliato, il n.3., poi dice ad alta voce che "vuole i soldi".
L'impiegato è un ragazzo che si è integrato perfettamente con l'insolenza dei suoi colleghi più anziani e con una faccia di bronzo chiede alla signora il suo libretto postale, inutile dire che quella - sempre parlando al vetro dello sportello n.3 e non al ragazzo al n.2 - inveisce ancora che vuole i soldi.
Al che il ragazzo le chiede quanto vuole e lei ribatte sicura:
< Un milione! > 
Questa storia finisce con la vecchia che dopo le sue strambe richieste ritira qualcosa come mille euro e resta con il gruzzolo in mano a sorridere al vetro n.3 senza operatore, e con me che faccio gesti di morte e di apocalisse con la mano destra finché non vengo servito e con strabiliante stupore dei presenti esco trionfante dalle poste dopo una attesa che si aggira intorno all'ora e trentacinque (che è record nazionale per la categoria "pagamento di un bollettino").
Ecco una cosa che non mi mancherà affatto, pensavo mentre uscivo dalle Poste.


Marcello D'Onofrio


lunedì 17 marzo 2014

Una mano sinistra

Se ne sta lì, taciturna ma guardinga, la mia mano sinistra.
E' proprio una mano come le altre, con tutte e cinque le dita - non troppo lunghe - le nocche, il dorso, il palmo e tutto il resto; le unghie fanno pessima mostra di se con quel loro bordino bianco che mi ostino a non mangiucchiare e mi pare un gran traguardo quando raggiunge i due-tre millimetri di lunghezza, poi però mi crogiolo su questa soddisfazione e ricomincio a rosicchiarlo, dai bordi, con cura e metodo.
L'unghia del dito medio cresce più in fretta delle altre.
L'unghia del pollice è quella sulla quale ho più aspettativa perché, quando arriva ad una data lunghezza, palesa una lieve ondulatura sulla sua superficie - ondulatura che ha pure mio padre, e questo è un carattere di appartenenza alla mia famiglia, tuttavia non riesco mai a farla crescere a sufficienza; l'ultima volta che l'ho vista, l'ondulatura, avevo dieci anni o poco più.
Il dorso della mano è solcato da belle vene che quando si gonfiano hanno tonalità verdacee e conferiscono alla mano un aspetto snello, sano e muscoloso; qualche peletto sulle prime falangi di ogni dito regala infine un'aria adulta per sfatare l'aspetto un poco fanciullesco dettato forse dai polpastrelli arrotondati a causa del problema di onicofagia di cui prima.
La mia mano sinistra un tempo vantava grosse imprese e glorie, dal momento che da bambino ero completamente ambidestro e quindi non risentiva minimamente della superiorità della sua gemella destra: era in grado di scrivere e colorare al suo pari e godeva quindi di grande considerazione da parte di tutti. Tuttavia crescendo ha ricoperto ruoli sempre più marginali fino ad essere riservata a mansioni satelliti e di contorno (un momento di gloria è stato quando ho avuto il braccio destro rotto e, dovendo portare il gesso per più di un mese, la mano sinistra ha acquistato improvvisamente importanza e funzionalità).
Ad oggi cerco di mantenerla attiva affidandole , di tanto in tanto, compiti rilevanti quali il lavaggio dei denti, l'uso della forchetta, la composizione di messaggi con il telefono e il bidè, tutte attività che richiedono abilità medio-alte.
La mia mano sinistra vive e qualche volta non ne ho il completo controllo o pure non ne ho la più completa percezione tanto che, al mio stimolo cerebrale dei muscoli che la muovono, essa si rifiuta di muoversi e se ne sta come un grosso insetto inerte, godendo di quella sua breve e fugace indipendenza.
La mia mano sinistra è stata in molto posti e, sebbene non ottemperi a compiti importanti quanto quelli della destra, non gli nego la più grande delle soddisfazioni che con la destra condivide, il toccare. L'appagamento che il tatto della mia mano sinistra mi da non è paragonabile a quello della destra perché quest'ultima, dato il suo maggior uso ha sviluppato una sensibilità superiore; il tatto della sinistra dunque mi offre un diverso spettro di sensibilità al quale corrisponde un corredo di sensazioni del tutto diverso. E questo lo riscontro continuamente dal momento che sono un ossessivo compulsivo e tocco qualsiasi cosa. 
Non tutto ciò che è stato toccato dalla mia mano sinistra può essergli risultato piacevole, ma sono sicuro che potrebbe dire il contrario con altrettante e superiori esperienze tattili che, appunto, ha alquanto apprezzato.
La mia mano sinistra svolge comunque un nobile compito che la destra non potrebbe affatto, è incaricata infatti di diteggiare le note sulla tastiera del violino mentre alla gemella resta il compito - meno nobile e più routinario - di tenere l'archetto.
Per mostrare questa superiorità artistica, la mano sinistra indossa un piccolo anello in argento che - contrariamente a quanto si pensi - non sottostà a nessuna causa sentimentale del cuore, e viene infilato alternativamente nel pollice o nell'indice.
Durante le pratiche violinistiche l'anello viene rimosso o, in taluni casi, assegnato temporaneamente ad un dito della mano destra che lo porta però senza abituarcisi troppo.
La mia mano sinistra vanta inoltre il vantaggio di non aver subito grossi traumi o qualsivoglia lesione in virtù del fatto che viene appunto usata meno, di conseguenza è meno esposta a incidenti di questo tipo quali invece incombono frequentemente sulla destra. Si conta comunque qualche sparuta ustione da forno.
La mia mano sinistra.


Marcello D'Onofrio







lunedì 10 marzo 2014

Una amicizia

Sonnecchiavo pigramente sul divano quando sentii, come ogni pomeriggio intorno alle cinque, i passi pesanti che salivano le scale del condominio; mi stiracchiai un poco e andai ad aspettare davanti alla porta che questa si aprisse, ero solito fare gli onori di casa, dopotutto ero io il padrone.
Un uomo barbuto avvolto in un impermeabile grondante di pioggia entrò in appartamento, si muoveva goffamente come tutti gli altri del resto, e non mancò di schizzare acqua qua e là  mentre si spogliava. Scartai di lato per evitare di essere investito da una nuova sventagliata d'acqua gelida: quell'uomo mi dava un'enorme fastidio quando si muoveva così frenetico e con così poca coordinazione di gambe, braccia e tutto il resto, comunque mi voleva bene e attesi che mi degnasse di attenzione. Questo non mancava mai di farlo.
Mi guardò dall'alto al basso - era molto più alto di me - quindi si piegò sulle ginocchia e allungò le manone che erano sempre stranamente morbide e cominciò a darmi dei pizzicotti. Quando lo guardavo da vicino potevo riconoscere ogni volta che aveva dei formidabili baffi, stavo ad osservarlo in silenzio per lungo tempo e lui pure faceva lo stesso, non ci dicevamo granché ma il nostro era un rapporto profondo.
Io tolleravo i suoi modi bruschi e goffi lui tollerava la mia inguaribile pigrizia oltre che quella mia cattiva abitudine di andare a piluccare dal suo piatto quando avesse finito di mangiare, ma ci rispettavamo.
Quel pomeriggio lesse, come spesso faceva, un lungo trattato su Hegel e io lo stavo a sentire attento; a forza di sentir parlare di quell'Hegel avrei potuto tenere seminari e parlare di lui e del suo pensiero per ore ma non me ne importava poi molto, era una cosa che assorbivo passivamente. Lui leggeva sempre ad alta voce, credo per rendermi partecipe dei suoi interessi e per non isolarmi, e comunque era piacevole starlo ad ascoltare per via della sua voce profonda e bassa. A me danno fastidio i suoni acuti, preferisco i toni grevi.
Comunque quella sera, come ogni sera, mise su' un disco classico che gli piaceva tanto, un concerto per pianoforte (credo fosse Chopin) e si sdraiò a letto con l'aria d'essere sfinito, io mi infilai come ero solito fare sotto le coperte accoccolandomi sotto il suo braccio sinistro. 
Lui mi carezzava dietro le orecchie e ci addormentammo al suono del concerto di Chopin e del mio ron ron.

Marcello D'Onofrio





lunedì 3 marzo 2014

Una stanza

Ogni pomeriggio, alle quindici, la stanza prendeva vita.
Non come ci si immaginerebbe che una stanza facesse sotto l'influsso di una qualche magia o una soprannaturale forza, no, la stanza era viva di una silenziosa e discreta vita che si lasciava intuire. 
Mi si rivelava, pian piano come una brutalità che però conoscevo, che avevo imparato a conoscere eppure - ogni pomeriggio quando il pendolo di legno segnava le tre - mi inchiodava alla poltrona.
Dovevo restare immobile, funzionava così, non dovevo essere scoperto vivo perché immaginavo che non stava bene che uomini e cose avessero vita nel medesimo istante; stringevo i braccioli della mia poltrona mentre sentivo l'aria della stanza farsi pesante e ogni oscillazione della lancetta dell'enorme orologio a muro emulava il ritmo di un grande cuore meccanico che tornava alla vita. Ero solito chiudere gli occhi a quel punto perché io, uomo vivo, non sopportavo di vedere palesarsi la mia stessa virtù in quegli oggetti: percepivo il fremito statico che animava le tende e i drappeggi che schermavano la luce del primo pomeriggio, ne assorbivano la calura e me la vomitavano addosso con prepotenza. 
Ed io immobile nella mia poltrona.
Poi era il turno della carta da parati con le sue figure che, pur restando nell'ordine impresso da chissà quale stampatrice industriale, si svolgevano e si susseguivano nelle loro tonalità ocra di penombra e sfilavano intorno alla mia poltrona in qualcosa che interpretavo come a metà fra il beffarsi di me e un circolo totemico nel quale io ero il loro sacrificio. 
Ed io immobile aggrappato ai braccioli.
La parte più terrificante era senza dubbio quando anche i mobili esuberavano la loro esistenza: cominciavano con dei sinistri scricchiolii fino ad arrivare ad un vero e proprio dialogarsi di legno antico e cere e stucchi e prodotti per le tarme che - fra di loro - si scambiavano i pareri su quello strano essere quale ero io che assistevo alla loro vita. Un dialogo nel quale io non avevo battute ed ogni frase echeggiava con sfacciata insistenza fra le pareti della stanza e a qual punto ogni singolo oggetto ne prendeva parte: era certo la massima espressione di quella follia che si prendeva gioco di me, immobile sulla poltrona.
Nell'istante che il grosso pendolo batteva le quindici e dieci, tutto finiva; nessuno si sarebbe potuto accorgere di quel mutamento e nessuno avrebbe notato nulla, nessuno tranne me che - ogni giorno, immobile sulla mia poltrona - assistevo all'aberrazione della vita della stanza per dieci minuti.
Quando poi il campanello suonava, poco dopo, anticipava l'arrivo del mio psicoterapeuta, tale Dott. K. Gourges, che avrebbe camminato per una mezz'ora - come faceva ogni pomeriggio - nel mio salotto toccando i mobili, sfiorando le tende e rasentando la carta da parati, ignaro della vita che li aveva appena animati; e io, sempre nella mia poltrona, guardavo stupito senza dire una parola quell'uomo dai lunghi baffi grigi che non sapeva nulla della mia camera eppure veniva, diceva lui, per guarirmi da una cosa che chiamava schizofrenia.
Trovavo la cosa assurda.


Marcello D'Onofrio